lunedì 27 giugno 2016

Batman v Superman: Dawn of Justice

Avevo scritto questo post settimane fa e me l'ero tenuto tra le bozze pensando di rifinirlo nei giorni seguenti, ma poi il tempo mi è mancato e alla fine ve lo cuccate così come mi era venuto fuori di getto pochi giorni dopo aver visto il film. Quindi, bando agli indugi, oggi si parla di Batman v Superman: Dawn of Justice.


Fin dal suo annuncio questo film ha scatenato polemiche e previsioni fataliste. Per non parlare di quando Ben Affleck è entrato a far parte del cast nel ruolo di Batman. Non uno dei commenti pre-film che ho sentito/letto sembrava promettere bene e in effetti i crossover possono essere un problema spinoso, questo film in particolare ha dovuto affrontare tutta una serie di fattori sfavorevoli alla sua produzione.
Innanzitutto è una trasposizione, che implica sempre un cambio di linguaggio, qui da quello del fumetto a quello del cinema. Gli adattamenti sono in genere accusati di scarsa fedeltà all'originale e una fetta degli spettatori sono fan fedeli al marchio che possono percepire ogni opera derivata come copia sbiadita o stravolta di un originale perfetto. Occhio ai puristi, fanno paura!
Dopodiché, bisogna ricordare che sia Batman che Superman hanno una lunga storia alle spalle, hanno valanghe di albi, di animazioni, di reinterpretazioni e di altri film che nel corso tempo hanno contribuito a istituire una tradizione sui rispettivi personaggi, un filone che ha selezionato le informazioni da tralasciare, quelle da tramandare e che ha accolto parte delle innovazioni. 
Infine l'unione di due opere parzialmente distinte (condividono lo stesso universo ma presentano personaggi, ambientazioni, toni differenti) deve trovare un punto di raccordo che funga da base comune e deve soddisfare due diversi fandom, oltre al pubblico che si interessa per la prima volta.
Insomma, era un progetto che partiva svantaggiato rispetto a un film con una sceneggiatura originale. Da qui le previsioni catastrofiche.

Detto questo, anch'io mi aspettavo una schifezza, anche perché, diciamoci la verità, l'esperienza recente di crossover della Marvel, The Avengers e il suo seguito, è risultata ottima per il botteghino ma pessima per qualità. Certamente anch'io sono andata a vederli al cinema pagando il biglietto, ma non mi aspettavo bei film (e non li ho avuti). Volevo togliermi la curiosità sorta con tutto quell'hype (pubblicitari bastardi) e godermi scene d'azione, combattimenti ed effetti speciali sullo schermone, dove rendono meglio. 
Lo spiraglio di luce: mi sa che sono una delle poche persone a cui Man of Steel è piaciuto, quindi qualche speranza per me c'era, e non ho mai avuto niente contro Ben Affleck (a questo proposito è giusto dire che a me è piaciuto anche Daredevil e pure quello, oggettivamente, è una patacca, anche se il Director's Cut lo migliora di molto).

Quindi, senza ulteriore indugio dico che Batman v Superman non è così malaccio. Come ho detto più su, pensavo peggio. Molto peggio. Forse complice del giudizio è stata anche la visione, un paio di giorni prima, de Il cacciatore e la regina di ghiaccio, e quello sì che era urendo, proprio mal fatto e noioso.


Il film si apre con una sequenza ambientata durante l'infanzia di Bruce Wayne in cui si alternano il flashback del funerale dei genitori e quello della loro morte. Seguono le vicende urbane di Bruce durante il combattimento devastante tra Superman e Zod, che collega il film alla pellicola precedente. Da qui la trama si sviluppa lentamente, portando in scena la quotidianità del rapporto tra Clark e Lois, l'impatto che l'esistenza di Superman, e più in generale quella di specie aliene ostili, ha avuto sull'opinione pubblica mondiale nonché sulla politica e la rabbia e la frustrazione di Bruce/Batman, già esistenti ma acuite a causa della sua umana impotenza di fronte alla distruzione incontrollata portata dagli extra-terrestri.


Fugacemente compare Diana Prince, la cui vicenda si intreccia per caso a quella di Bruce.
Tutti gli scontri sono relegati nella seconda metà del film, che cambia ritmo diventando molto più dinamico. Sulla trama non dico altro per non fare spoiler e comunque mi sarebbe impossibile un paragone con i fumetti perché, non essendo fan né di Superman, né di Batman, né di Wonder Woman, conosco le loro storie individuali solo superficialmente.

Il pregio maggiore del film è Hanz Zimmer, o meglio, la sua colonna sonora, che riprende i temi di Man of Steel (di cui pure mi avevano colpito le musiche). Gustatevela qua perché merita.
Per il resto ho trovato che Ben Affleck stesse piuttosto bene nei panni di Bruce Wayne, un po' meno in quelli di Batman, anche perché aveva dei costumi bruttini che lo facevano sembrare grosso (e già non è un giunco di suo).


Gal Gadot, alta e slanciata, non mi pareva una buona scelta per una donna procace e tutta curve come Wonder Woman, ma devo dire che alla fine non sfigura. La mia testa la collega automaticamente a Fast & Furious e a Han, il mio personaggio preferito della saga, quindi proprio non riesce ad essermi antipatica (Han <3 <3 <3 ).


Mi è piaciuto Lex Luthor, anche se mi rendo conto che si discosta parecchio dal Lex tradizionale, eppure a me interessa Jesse Eisenberg, mi affascina il suo modo di recitare e spero di vederlo ancora in molti altri progetti.


Invece non ho apprezzato l'Alfred di Jeremy Irons, mi è parso quasi arrogante. Holly Hunter fantastica come sempre e ho apprezzato i cameo di Jeffrey Dean Morgan e Lauren Cohan nei panni di Thomas e Martha Wayne.
Brevissimamente vengono introdotti altri supereroi, gettando le basi per i prossimi film DC: compaiono di sfuggita Aquaman, interpretato da Jason Momoa, Flash e Cyborg. Inoltre Batman conserva nella batcaverna un vecchio costume di Robin:


Mi sa che vado controcorrente, ma secondo me questo Dawn of Justice si meritava una guardata. Niente di imperdibile ma mi ha convinto.


lunedì 20 giugno 2016

Novella degli scacchi

A bordo del piroscafo in viaggio da New York verso Buenos Aires, l'anonimo protagonista della Novella degli scacchi di Stefan Zweig fa la conoscenza di due personalità totalmente opposte, accomunate dal solo interesse per il gioco.
Da una parte c'è Mirko Centovic, semplice e illetterato, lento e silenzioso al punto da risultare irritante nella sua ostinazione, riscattato solo dall'inspiegabile talento scacchistico (campione del mondo in carica) che sfoggia con spregio; dall'altra c'è il Dr. B., affabile e cortese, ciarliero e nervoso, si immischia per caso in una partita iniziata da altri.
Neanche a dirlo, i due finiranno a battersi, bianco contro nero, in una partita che non passerà mai alla storia.
"[...] ma quant'era difficile, anzi, impossibile immaginarsi la vita di un essere umano intellettualmente attivo per il quale il mondo si riduce all'angusto binario del bianco e nero, che nella propria esistenza ricerca i suoi trionfi in un semplice avanti e indietro, destra e sinistra di trentadue pezzi, un essere umano per il quale, in una nuova apertura, muovere prima il Cavallo anziché il Pedone rappresenta già una grande impresa e un misero cantuccio di immortalità nell'angolino di un libro di scacchi - un uomo, un uomo che per dieci, venti, trenta, quarant'anni, senza impazzire, dedica sempre e di continuo tutta la potenza della propria capacità di riflessione al ridicolo compito di mettere all'angolo un re di legno su una tavola di  legno!" (pp.46-47).


E' una novella breve (un centinaio di paginette) e apparentemente priva di equilibrio.
Si può dividere in due parti: nella prima e più breve il narratore introduce Centovic, riportando di seconda mano le informazioni acquisite da un altro passeggero della nave che riassume la vita del campione di scacchi dall'infanzia alla fama; nella seconda il Dr. B. racconta in prima persona il suo incontro con gli scacchi, limitandosi a parlare di una sola stagione della sua vita, però con gran dovizia di dettagli e inaspettata intensità.
Rozzo contro raffinato, terza contro prima persona, summa superficiale contro particolari e pathos. Il tutto si risolve in un finale quasi anticlimatico, non privo, però, di ironia.

Non è esattamente una storia di scacchi. Di scacchi ce ne sono, e parecchi, ma non sono il fulcro della storia, sono un mezzo. Anche se le regole sono quelle che tutti conoscono e lo spazio per giocare si limita pur sempre a sole sessantaquattro caselle, ogni cervello agisce in maniera differente di fronte al gioco degli scacchi e in questo racconto Zweig usa gli scacchi per mettere a nudo due diversi modi di interpretare il mondo, di interagire con la realtà, che più che personaggi diventano tipi umani, emblematici della psicologia di un'intera specie. Centovic rimane l'altro, distante e distaccato; il Dr. B. stimola invece l'empatia del lettore, e alla fine si ha quello che io chiamo l'"effetto alla Dosto" (quando è il libro a leggere il lettore, come capita leggendo, o facendosi leggere, da Dostoevskij): il ritrovare se stessi in personalità totalmente diverse, per il solo fatto di essere umani, di essere fatti e di pensare tutti allo stesso modo (ed è un po' come come la conferma di ciò che già si conosce a cui accennava Calvino parlando del perché i classici della letteratura sono classici).

Probabilmente a suo tempo (composta nel 1942, pubblicata nel 1944) il linguaggio della novella sarà parso ai lettori moderno e un tantino esotico, dato che non mancano termini inglesi come self made man, deck-show, deckchair o remember, già sintomo dell'americanofilia del nostro tempo.
Oggi, dove ci si confronta con un vocabolario zeppo di computer, basket, e-book, snorkeling, T-shirt, quelle poche parole inglesi all'interno della novella mi sono sembrate ancora più moderne, soprattutto se inserite nel linguaggio di Zweig, che suona classico e misurato.

Insomma, a me Zweig è piaciuto :D

P.S. riguardo alla mia edizione, la brevissima introduzione a cura della traduttrice è solo fuffa inutile e la scritta EDIZIONE INTEGRALE in copertina fa davvero ridere per un'opera che non arriva neanche a 130 pagine XD

Buone letture!

martedì 14 giugno 2016

Le ho mai raccontato del vento del Nord

Emmi vorrebbe disdire l'abbonamento a una rivista. E invece la sua e-mail finisce nella casella di posta di Leo. Una risposta tira l'altra ed Emmi e Leo diventano amici di penna di tastiera. Decidono di non parlare l'uno all'altra di niente di concreto su loro stessi, non si parla dell'aspetto o della famiglia, non si parla del lavoro o della casa. Si resta sul vago, si parla di tutto e niente. 
I due arrivano presto a parlare di incontrarsi, ma trovano sempre il modo di evitarlo. Diciamo che si incontrano in maniere indirette e intanto si scrivono con sempre maggiore assiduità. Si cercano quando non si sentono leggono, si prendono in giro, si offendono ma tornano sempre a scriversi.
Fin dalle prime pagine si può immaginare come si evolverà questo rapporto epistolare. Ma non sono tanto sicura si possa prevedere come decide l'autore di farlo finire. 

Durante la lettura ho oscillato tra momenti di divertimento e attimi di intensa irritazione verso questi personaggi che mai e poi mai agiscono come farei io se mi trovassi nella loro situazione. Verso la metà del libro mi stavano decisamente sulle balle e, per ripicca nei loro confronti, mi sono dedicata per settimane ad altre letture. Poi ho ripreso in mano la loro storia e, merito della forma dialogica senza lattosio (cioè altamente digeribile), sono volata prima dell'ora di cena a un finale che mi è piaciuto tantissimo. Sappiatelo: esiste un seguito. Penso che, nonostante l'irritazione residua, in futuro leggerò anche quello, perché Emmi e Leo tutto sommato sono simpatici e vorrei sapere che fine (effettiva) fanno.

Un vero peccato per le mail, cioè le lettere brevi (quando non brevissime) si leggono che è una meraviglia, scivolano via proprio, solo che non sono introdotte dall'indirizzo del mittente e questo fa sì che nei dialoghi serrati si perda un attimo di vista chi dei due sta scrivendo cosa e per recuperare il filo del discorso bisogna tornare indietro di qualche riga per fare mente locale e capire dal contenuto della mail iniziale chi ha iniziato la conversazione. Laborioso e inutile, se si pensa che si poteva risolvere con un piccolo accorgimento.
Altro peccato: le mail sono precedute dal tempo di attesa percepito dagli interlocutori, cioè all'inizio di ogni lettera è indicato genericamente dodici minuti dopo, tre giorni dopo, il mattino dopo etc. senza indicare effettivamente la data e l'ora di ricezione della mail. In questo modo è difficile capire quanti mesi dura la corrispondenza o a che ora della giornata vengono scritte le lettere (una lettera che giunge nel cuore della notte ha un significato diverso da una lettera inviata nel bel mezzo del pomeriggio). Il lettore non ha nessun elemento esterno ai contenuti delle lettere per sapere chi sta parlando, quando, cos'è successo nel "mondo reale" tra una mail e l'altra, come anche per conoscere i personaggi secondari, sempre descritti con gli occhi di Leo ed Emmi. L'intero mondo di Le ho mai raccontato del vento del Nord è filtrato attraverso le loro parole e tutto quello che il lettore può fare è leggere tra le righe per capire quello che i due NON si dicono tra di loro, ma che emerge ugualmente per volontà dell'autore.

Una lettura scorrevole e poco impegnativa che esplora il romanzo epistolare dell'era moderna.

P.S. Sì, effettivamente il titolo del libro è una domanda, anche se non c'è il punto interrogativo XD